sabato 7 febbraio 2009

Il Signor F. - racconto da un incipit


Era tempo di decidere. Dopo quella brutta, bruttissima giornata, il signor F. non ebbe più dubbi: qualcosa doveva cambiare, ed anche al più presto. S’infilò la giacca da camera a quadrettoni rossi e gialli e sedette alla scrivania di fronte alla porta finestra. Fuori pioveva e le luci dell’Hotel Corso erano accese sulla strada trafficata. Questa volta avrebbe programmato ogni cosa. Un promemoria dettagliato sarebbe stato il punto da cui partire. Accese il computer e cominciò a segnare il da farsi, una sorta di piano a cui attenersi scrupolosamente.

Di colpo si sentì invadere da un senso di profondo benessere, come gli capitava ogni volta che

sentiva il suono metallico che lo avvertiva di essere stato contattato in chat. Abbassò il file e vide lampeggiare un riquadro arancione in basso a destra:

«Eccoti finalmente, Oscar!»

Rinfrancato, il signor F. sorrise allo schermo prima di iniziare a picchettare deciso sulla tastiera.

«Scusa Belle, sono appena tornato. Ho preso tanta pioggia e non ho neanche pranzato»

«Mon petit coeur. . . hai di nuovo scordato l’ombrello?»

La catena formata da calzini, camicia e pantaloni che asciugava sull’unico termosifone attestava che, per l’ennesima volta, non aveva creduto alle previsioni meteorologiche propinate, a tutto volume, dal televisore dell’anziana vicina. La voce fintamente allegra del colonnello di turno aveva anticipato rovesci su tutto l’arco Appenninico ma il signor F. era uscito fiducioso nei deboli raggi che illuminavano le vetrate del Hotel Corso. Era già un anno che fissava la stessa cartolina e ormai sapeva distinguere le ore a seconda di come la luce colpiva le finestre dell’elegante albergo.
Si chiedeva spesso se la sua presenza domestica rappresentasse un metronomo per qualcun altro. Forse le sue scarpe sul balcone la notte o le tende tirate dopo pranzo scandivano il tempo per qualche suo dirimpettaio. Era affascinato dalle connessioni invisibili che esistono tra le persone.

Lui stesso era capitato a Bologna per caso, ereditando il monolocale alla morte di sua madre. Stanco di girare per lavoro, accolse l’idea di un porto ma l’azienda non appoggiò il suo desiderio di stabilità e lo licenziò. La permanenza tra le mura materne gli permise di conoscere il profilo di una perfetta sconosciuta. Le abitudini, i gusti, le letture e la malattia della donna che lo aveva messo al mondo riempirono alcune di quelle lacune che l’avevano accompagnato negli anni dell’adolescenza, trascorsi a Parma con il padre.

Trovò conferma dei dubbi paterni spalancando, la prima volta, gli armadi a muro. C’erano vestiti da uomo per tutte le stagioni. La naftalina aveva impregnato la lana a scacchiera della pesante vestaglia da camera, l’unico indumento che aveva conservato del misterioso amante di sua madre. Un fantasma che non si era mai materializzato nella casa di corso Eurialo, relegando ogni giudizio sulla moralità di sua madre alla dimensione dei “chissà”. Del resto, divorziarono che era appena dodicenne e fu una libera scelta di suo padre occuparsi di lui a tempo pieno invece di rifarsi una vita.

Sobbalzò al bagliore sonoro che invase la stanza buia.

«Ci sei ancora?»

Belle si stava trattenendo dal fargli l’unica domanda che contava. Il signor F. respirò a pieni polmoni e buttò fuori l’aria lentamente.

«Sì, ma non è andata bene come speravo, Belle. Ho aspettato il direttore della filiale per un paio d’ore ma anche lui mi ha assicurato che, senza un’entrata sicura, non mi possono concedere il prestito.»

Il forte gorgoglio del suo stomaco vuoto coprì l’arrivo delle parole di Belle.

«Mais c’est pas possible! Non ti arrabbiare, ma hanno capito chi sei? »

Certo che lo sapevano. Il bancario aveva guardato le sue generalità e, improvvisamente serio, aveva letto ad alta voce: «Oscar Ferulo. Nato a Parma nel 1963. È parente?». Dinnanzi al solito quesito, rispose incolore: «Sì, sono il figlio». Dopo un paio di banalità sul sacrificio di suo padre, il direttore liquidò la richiesta di finanziamento e sparì in una nuvola di dopobarba.

Fu in quel momento che Oscar Ferulo si lasciò morire, strappando la carta d’identità che aveva ancora in mano e urlando che non era più il figlio di Ennio Ferulo; non c’entrava più niente con quella storia. D’ora in poi sarebbe stato solo un signor F. qualunque, senza medaglie al valore civile da raccontare o risarcimenti da mendicare. Gli unici che dovevano essere ricompensati, pensò, erano gli zii, che l’avevano cullato fino al primo stipendio da rappresentante.

Uscì, il figlio dell’eroe regionale, sotto gli occhi provinciali di impiegati e clienti. La pioggia lavò via ogni indecisione. Sapeva esattamente cosa fare. Finì la lista: 1. vendere appartamento, che in fondo è solo un mausoleo di due sconosciuti; 2. raggiungere Belle in Francia; 3. comprare lo chalet di Névache che Belle ama tanto; 4. trovare lavori stagionali.

L’aria frizzante e muta della montagna, mista alla dolcezza di Belle, avrebbe cancellato l’immagine di suo padre agonizzante sul campo da basket in cemento del liceo dove faceva il bidello, lo stesso in cui si era diplomato lui. Il cuore che poi non aveva retto alla violenza delle fiamme alle quali aveva strappato tre dei suoi ragazzi, rimasti intrappolati nei bagni a fumare una canna. Il signor F. avrebbe dimenticato la rabbia dei suoi sedici anni, che gli impedì di accettare la scelta coraggiosa di Ennio Ferulo.

Valentina Malcotti©

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