giovedì 12 marzo 2009

Qualunque giorno


Dell’uomo sulla spiaggia, in piedi dietro al freezer dei gelati, non ricordo quasi nulla. Il suo viso è una macchia scura nella mia memoria, un fermo immagine sbiadito. I suoi lineamenti cancellati dal panico di quel pomeriggio. Permane, come un'atroce colonna sonora, il suo respiro affannato tra una parolaccia e l’altra. Ero in coda con Marta per il tradizionale cornetto delle cinque; davanti a noi il corteggiatissimo Matteo, dietro di noi Fabio e Giorgia che non si toglievano le mani di dosso. Lui la cingeva con il braccio coperto di tribali all'henné, insinuando il pollice sotto il bordo del suo bikini. Giorgia giocherellava con i laccetti dei suoi boxer da mare a bande fluorescenti, alternando parole sussurrate a risatine maliziose. Davanti a noi, Matteo aveva appena ritirato il suo cono maxi e già si apprestava a scartarlo. Voltandosi mi aveva sorriso mormorando un «ciao» e il batticuore mi aveva travolto. Le sue corde vocali erano già esplose, rendendo il suo vocione ancora incontrollabile ma irresistibilmente sensuale. Aveva un fisico asciutto e scolpito, non ancora storpiato dal culturismo d'immagine.

Sfoggiavamo tutti una discreta tintarella, giunti ormai agli ultimi giorni di vacanza. Sulle nostre giovani spalle, come un mantello bianco, c'era la leggera pellicola di salsedine che rimane dopo il bagno. A volte, al riparo nella cabina di legno sotto la passeggiata, passavo velocemente le labbra sull'avambraccio oppure sul dorso della mano per sentire il gusto del sale. Mi emozionava sentire quel pizzichio sulla lingua. Esaltava l'esperienza sensoriale, intensificando la mia immedesimazione nel momento che stavo vivendo. Forse è per questo motivo che alcuni ricordi sono più vividi, aggrappati alla memoria del gusto: di sale, della crema al cocco che spalmavo sul viso e sconfinava sulle labbra, della granella di nocciole che per prima addentavo.

Mi stavo avvicinando al banchetto itinerante dei gelati per fare la mia ordinazione.

«Un cornetto, per favore»

L'uomo dei gelati spalancò il frigo in un solo movimento, facendolo scorrere lateralmente.

«È rimasto solo alla panna. Va bene?»

Annuii mentre aprivo il borsello per prendere le due mila lire che gli dovevo. Tornai a guardarlo con il braccio protratto per consegnare la banconota (erano sempre state abbastanza rare, oltre ad essere le più brutte, con quelle sfumature paglierine) ma incontrai la sua espressione vigile. Fissava un punto oltre le mie spalle. Dopo un attimo d'imbarazzo mi voltai a guardare nella direzione del suo sguardo. Mentre ruotavo il capo arrivò il suo urlo strozzato.

«Noooo! Fermi!»

Gettò il mio cornetto nel freezer e partì con uno sprint disperato verso il bagnasciuga, lasciando il frigo aperto. La coda dietro di noi si disperse confusa seguendo con gli occhi la corsa disperata del gelataio. I suoi piedi nudi affondavano nella sabbia scura rendendo il suo inseguimento scomposto e disordinato. Dopo pochi passi volò via il suo vecchio cappellino traforato con la visiera verde. Ansimava tra un «bastadi» e l'altro e dovette fermarsi a prendere fiato. Si teneva le ginocchia con il busto piegato in avanti, nel tentativo di ossigenare i polmoni. Il suo pedalò giallo addobbato a chiosco era già lontano dalla riva. A bordo, si intravedevano le schiene abbronzate di tre ragazzini che pedalavano talmente veloci da lasciare una scia bianca. Ogni tanto si voltavano a guardare gli spettatori assiepati sulla spiaggia a condannare la loro bravata. Un paio di uomini, tra cui lo zio di Marta, si lanciò all'inseguimento con grandi bracciate ma ormai i giovani quadricipiti, allenati dalle partite di calcetto autunnali, li avevano portati lontano, già quasi in linea con Punta Dessì.

I loro schiamazzi divertiti si infrangevano sulla riva nel torpore pomeridiano, arrivando fino alla spiaggia che si era riempita di neonati puntuali per la loro uscita solare. I raggi prossimi al tramonto non potevano più ferire le loro sagome porcellanate che, ancora inferme sulle gambe, erano anch'esse rapite dalla scena e incantate con i secchielli in mano. Il leggero scirocco che soffiava da qualche giorno portò il rumore sordo di un peso che buca la superficie dell'acqua. Un «plompf» che poteva significare una cosa sola per il gelataio. Strizzò gli occhi verso l'orizzonte e mise a fuoco il pedalò giallo che, superato il promontorio, era ormai privo dell'ingombrante frigo zeppo di panini, bevande e frutta.

Erano forse tre estati che l’uomo eseguiva la stessa routine quotidiana: la mattina un paio di giri con il cocco, i quotidiani e le bibite prima di partire, a mezzogiorno, con il tour dei panini imbottiti finché al pomeriggio diventava il miglior complice dei bambini con il suo carretto di gelati confezionati. Nei weekend veniva ad aiutarlo quello che presumo fosse suo figlio. Aveva le stesse spalle a punta e parlava con il suo accento molisano. Un pomeriggio che ero rimasta in spiaggia fino a dopo il tramonto, l'avevo visto riporre il suo pedalò personalizzato dentro al gabbiotto del nostro stabilimento, i Bagni Groucho. Chicco, il gestore, eterno nostalgico della slapstick commedy americana, l'aveva aiutato a ritirarlo salutandolo con un «A domani Sal!». Forse si chiamava Salvatore. Eppure l'insegna di vernice verde che campeggiava sul cartone appeso al sedile giallo del pedalò recitava Bar delle Sirene. Le battute si erano sempre sprecate, soprattutto tra gli irrequieti adolescenti maschi, su quella targa artigianale e sull’identità delle avventrici sirene.

Ora il suo frigo l'avevano buttato di sotto e il pedalò aveva iniziato a spostarsi verso destra, fiancheggiando la secca che separava la nostra spiaggia Rena da quella sassosa e meno frequentata di Porto Peru. L'avvocato Tazzoli si era attaccato al cellulare per chiamare il 113 e il vociferare di quei momenti era saturo di pensieri vendicativi per quei ragazzini. L'avvocato aveva messo una mano sulla spalla di Sal: «Stia tranquillo, li aspetteranno a Porto Peru. Non possono mica andare lontano 'sti disgraziati». Sal non si curava della mobilitazione accanto a lui e dei consigli che tutti i professionisti in costume gli vomitavano addosso, facendo a gara a chi riusciva a dire la cosa più morale e rassicurante. Si lasciò cadere sulle ginocchia. Ormai aveva smesso di inveire. Era caduto in una specie di trance. Con occhi asciutti e sguardo vacuo aveva solo detto «Di mio avevo solo quella barca». L'aveva chiamata barca. Sembrava una constatazione lucida, priva degli emozionalismi della rabbia, pronunciata ad un tono adatto a una conversazione da salotto. Eppure queste parole le aveva dette al mare, alla schiuma che gli veniva incontro. Le aveva lasciate alle onde e si erano allontanate con esse. Anche noi ragazzi eravamo rimasti di sasso. Fabio e Giorgia seguivano i ladri di pedalò stretti in un abbraccio ora privo di malizia. Incrociai lo sguardo di Chicco e lessi il suo labiale cinematografico: "Stronzi".

Mentre ognuno si ergeva a paladino redentore del povero gelataio con il quale scambiavano, sì e no, due parole a stagione, Sal si era alzato e con lo sguardo fisso sulla sabbia aveva salito le scale che portavano alla passeggiata antistante la spiaggia. Aveva fatto gli scalini uno ad uno, senza più guardare verso il mare aperto. Era scomparso così, sotto gli occhi di tutti, lasciando un capello da baseball sul quale si leggeva a malapena la scritta sbiadita Emporio Vito – Bojano. Andò Marta a raccoglierlo e lo consegnò a Chicco. Sal lasciò anche i gelati a squagliarsi al sole. La mattina dopo in spiaggia si parlava solo dell'accaduto. La guardia costiera aveva subito fermato i tre ragazzini, ancor prima che sbarcassero a Porto Peru, recuperando il pedalò. Ma non sapevano come restituirlo al legittimo proprietario perché Sal si era volatilizzato. I carabinieri erano anche venuti con le divise sotto il sole a interrogare Chicco ma fu una sudata inutile perché lui si rese conto di non sapere nulla di quell'uomo e non fu d'aiuto. Dopo poco arrivò anche una specie di peschereccio con due palombari che, sotto lo sguardo incuriosito dei bagnanti, riesumarono il freezer nel punto esatto indicato da Chicco. Si scoprì che gli autori del furto avevano appena quarant’anni in tre e non erano ospiti dei Bagni Groucho, anche se li visitarono per una settimana intera, con la mansione punitiva di raccogliere mozziconi e cartacce dalla sabbia. I loro visi pulsavano sotto il sole: un po’ per i raggi caldi, un po’ per l’imbarazzo e un po’ per l’acne che bruciava le loro guance.

Uscì anche un piccolo trafiletto sulla cronaca locale ma la storia morì lì, con quell'agosto che finiva. A eclissarsi con le temperature furono anche le nostre ipotesi pettegole che ci tennero compagnia prima di tornare ai nostri rispettivi inverni cittadini. Ognuno diceva la sua sulle sorti del povero Sal: «si è tolto la vita lanciandosi da qualche scogliera»; «è fuggito in Jamaica con il figlio per aprire un bar sulla spiaggia»; «è dovuto partire all’improvviso per un lutto in famiglia». «Sta covando vendetta molisana» aveva detto Matteo divertito, mimando il caricamento di una pistola. Non ero affatto d’accordo ma la riverenza dettata dalla mia cotta per lui mi spinse a ridere alla sua battuta. Io, però, sapevo.

Io che l'avevo visto in faccia mentre mi passava il cornetto e guardava i ladri ero certa che fosse tornato a casa da sua moglie e le avesse detto che aveva sbagliato a portarli a vivere in quella località a preparare panini d’estate e crêpes d’inverno. Li avrebbe riportati a Bojano e, mettendo da parte l'orgoglio, sarebbe tornato a servire al banco del fresco nell’alimentari dell’odiato suocero. Così loro figlio avrebbe potuto frequentare l’università di Campobasso e studiare per riuscire ad evadere, almeno lui, la prigione dell’insicurezza economica nella quale suo padre annaspa, appigliato alla misericordia ipocrita della famiglia della sua incolpevole moglie.

Lei non gli fece domande, lo abbracciò, e iniziò silenziosa a preparare le valige.

Valentina Malcotti©

2 commenti:

Anonimo ha detto...

good start

Anonimo ha detto...

La ringrazio per Blog intiresny