giovedì 22 gennaio 2009

Angela e il Druido - Seconda Parte


Angela si era limitata ad annuire timidamente per timore di innervosire nuovamente Galbuser che si era già parecchio addolcito rispetto al loro primo scambio. La ragazza non riusciva a far combaciare la radiosa indulgenza emanata dal druido con l’aura di severità che lo avvolgeva.

«Non confondere la severità con la serietà. La prima la rivolgo solo verso me stesso mentre la serietà è un dovere che sento di avere verso gli altri» aveva detto distrattamente Galbuser mentre con un gesto della mano le indicava un’enorme coppa di legno alta circa mezzo metro.

Non ebbe neanche il tempo di stupirsi che il druido potesse leggere il suo pensiero che cominciò a preoccuparsi dell’oggetto che le stava indicando. Avvicinandosi notò che la coppa gigante era piena d’acqua fino all’orlo e, in trasparenza, intravedeva una specie di lastra di pietra chiara che attraversava l’intero diametro del grosso guscio.

«Non ti ricordi qualche altro particolare di quel sogno? Coraggio! Chiudi gli occhi e sforzati di tornare a quel momento nel quale guardavi la tua città sotto di te». Galbuser la riportò al presente, strappandola alla ricostruzione mentale che stava facendo del loro strambo incontro.
Ora Angela lo guarda senza parlare ma lui sorride alla sua ritrovata serenità.

«Allora prova a sederti in questa tazza», suggerisce il druido mentre lei si avvicina al bordo angosciata dall’idea di bagnarsi.

«Quest’acqua non bagna, stai tranquilla», la rassicura Galbuser, «anche perché non è propriamente acqua come la intendi tu. Così come questo fuoco che ci fa luce non arde delle fiamme che tu conosci e che sarebbero già state soffocate dalla mancanza di ossigeno».

Angela prende coraggio e scavalca con la gamba sinistra il bacile di legno finché la sua scarpa da ginnastica non tocca saldamente il fondo. Il liquido trasparente che fascia i suoi polpacci ha una consistenza quasi gassosa. Si sente come se fosse circondata da piume che le fanno percepire una massa ma senza sentirne il peso. Angela si siede lentamente sulla panchina granitica e la sostanza le arriva quasi sotto l’ombelico. Immerge anche le mani per un attimo. Adesso capisce cosa intendeva il druido quando diceva che non si sarebbe bagnata. Infatti, le sue dita sono perfettamente asciutte nonostante avesse avuto l’impressione che la sua pelle si fosse inumidita.

Il suo sguardo scandaglia la circonferenza del recipiente nella quale è immersa. Nello specchio di liquido, in alto a sinistra, appare un viso che non riconosce. Il profilo è vagamente mosso dai piccoli mulinelli causati dal precedente movimento delle sue mani. Galbuser intanto è sparito dal suo fianco e non parla più. Angela si volta convinta di vedere, alle sue spalle, il proprietario dell’immagine riflessa, magari qualche aiutante del druido. Con stupore constata di essere rimasta sola nel grande ambiente. Torna a guardare nel punto dove aveva visto il viso e lo ritrova ancora lì a guardarla candidamente. Ormai i battiti del suo cuore le rimbalzano in gola e un formicolio d’ansia sta prendendo il sopravvento.

«Non sei in pericolo, Angela». È tornata la voce del druido ma non sembra provenire da vicino. Angela lo sente parlare nella sua testa, fra i suoi pensieri. È come se fosse lei stessa a formulare le parole.

«Sono qui con te, non temere».

Angela non è ancora riuscita ad aprire bocca ma intuisce che c’è già un intenso dialogo a un livello non sonoro. La sua mente è stranamente sgombra ma anche acutamente concentrata.

«Tu sei seduta nel tuo personale “lago del tempo”, è così che lo chiamiamo, e sei tornata al sogno che mi stavi raccontando. Quello che vedi, però, non è il tuo ricordo privato dell’accadimento ma lo svolgimento che ha registrato l’universo di quegli attimi» spiega con voce calma il druido, con la padronanza di chi ha espresso il concetto infinite volte.

«Guarda con attenzione e dimmi cosa distingui».

Dopo una breve pausa, la ragazza comincia a descrivere l’immagine che lentamente sta comparendo sotto i suoi occhi. Il viso che aveva scorto appena si era immersa è sparito, lasciando il posto alla sua figura, vista dall’alto, mentre si lascia cullare dall’aria, in un cielo dalle lucenti sfumature violacee, proprio come l’aveva delineato al druido qualche minuto prima.

Una lunga camicia gialla, che non le appartiene, la veste e accompagna il suo volo. Sotto di lei, c’è il familiare scorcio della sua città. Le vie già illuminate, i viali alberati, le automobili, gli omini sui marciapiedi ma anche i fasci di luce domestica provenienti dalle finestre di chi è appena rincasato dopo il lavoro. È tutto vivido come quella notte e il suo ricordo che sovviene è così fedele all’immagine animata nel liquido che Angela è perfino in grado di anticipare la sequenza. Galbuser la desta nuovamente.

«Devi essere attiva nella tua osservazione. Non ti lasciar cullare dal ricordo tentando di rivivere i momenti. Non noti niente di bizzarro nella tua figura?»
Angela mette a fuoco nuovamente la sua immagine, staccandosi per un attimo dalla meccanicità del ricordo. Fra le pieghe svolazzanti della blusa color mimosa che veste quella lei ora quasi sconosciuta, intravede dei pezzi di carta sporca d’inchiostro. Appaiono e scompaiono in una forma definita che ora inizia a distinguere. Un braccio? No, anzi, sono due.

«Ma cos’è, un corpo?» sbotta con tono agitato. «Perché c’è della carta sotto di me?».
Angela si volta d’istinto a cercare una rassicurazione di Galbuser ma alle sue spalle il panorama è sempre deserto. Una vibrazione familiare le scuote le tempie mentre il sapere di Galbuser torna a guidarla.

«La piccola Angela, serena come lo è solo nei suoi sogni, che vola sulle spalle del suo uomo di carta, tutto fedelmente coperto di parole; delle sue parole».

«Delle mie parole? Non capisco!»

Adesso torna a guardare nella pozza sotto di lei, chinandosi in avanti per cogliere dettagli che possano dare un senso alle precisazioni di Galbuser. Il suo naso arriva a lambire lo specchio della non-acqua e ora la sua figura volante sembra posta sotto una lente di ingrandimento. Per quanto assurda, la scena non lascia spazio all’interpretazione.
Quel viaggio che l’aveva trasportata sopra la sua città mentre si preparava alla notte nascondeva modalità e traiettorie inaspettate. In corrispondenza dei suoi polpacci la presa era sicura nonostante la struttura cartacea degli arti. Riconobbe sulle braccia di cellulosa frammenti di frasi stampate intervallati da appunti con la sua calligrafia disordinata.
Il duo volante vira improvvisamente verso destra e Angela si ritrova faccia a faccia con la sua espressione rilassata ma anche con il viso, ora noto, che era apparso appena si era seduta nel bacile. La visione diventa sempre più comprensibile e le parole di Galbuser ora giungono come un’intima conferma.

«Se una notte prendi il volo, lui c’è. È sempre un passo dietro di te, carico delle tue ansie e delle tue aspettative, tappezzato dal tuo immaginario. Lui si mostra a tua immagine, vestito della fragilità della tua carta e avvolto nella confusione delle tue parole» spiega Galbuser.

Angela prova una fitta di tenerezza per quel viso senza tempo sospeso di fronte a lei, per il suo sacrificio che non sembra pesargli. I suoi lineamenti non si possono descrivere. Non sembra avere un’età precisa ma la sua fisionomia è carica di dolcezza.

«Lui mi ha contattato e, tu non te ne sei accorta, ma è stato lui a portarti qui oggi, aiutandoti nell’arrampicata», continua Galbuser. «Era di lui che ridevano i folletti. La sua presenza li ha agitati molto, ma questo è positivo, soprattutto per Tallin che fa sempre il finto tonto».

«Ma perché mi fate vedere questo, cosa significa? Devo saperlo!» sbotta Angela, senza trattenersi.

Il suo impeto improvviso increspa il liquido nel quale è immersa e le immagini si dissolvono, lasciando posto ad un collage velocissimo di volti. Alcuni sono uomini, altri donne ma ci sono anche brevi apparizioni di creature elementali. I profili si susseguono velocemente e vengono inghiottiti dalla pozza che ora si è fatta più scura. In ogni viso c'è qualcosa di intimo e rassicurante.

«Tu devi smettere di vivere con paura, Anglea. È questo che l’uomo di carta ti vuole far sapere» sentenzia Galbuser. Adesso Angela è di nuovo spiazzata. «Stai rischiando di commettere lo stesso errore che ti ha già segnato in altre vite. Noi dobbiamo impedirtelo. Mille volte tu hai già rinunciato alla vera esistenza scegliendo di essere passiva. Ora è il momento di toglierti il panico esistenziale una volta per tutte».

La verità delle sue parole investe Angela senz’avviso, travolgendola con una nuova consapevolezza. Ora il macigno che siede sul suo sterno sembra dissolversi nel liquido, permettendole di tirare un lungo sospiro e ossigenare il suo essere. Adesso è tutto molto più chiaro.
Senza pensarci su, Angela balza fuori dal grande guscio, atterrando asciutta sul terriccio della capanna. La raggiunge la donna dai capelli verdi con in mano un calice di cristallo fumante.

«Non serve Balda, grazie. La piccola Angela se l’è cavata benissimo». La voce di Galbuser adesso aleggia sopra le loro teste ed è calda e confortante.

«Conserviamo la tisana per Tallin. Ne avrà bisogno. Ho mandato Kovak a chiamarlo. È arrivato il momento di tirarlo fuori dalla sua fanciullezza».

Anglela gli sorride e china il capo. Il suo “grazie” a Galbuser arriva telepaticamente. I piedi sembrano portarla da soli, facendole fare il percorso a ritroso. Il sole è alto, fuori dalla capanna, e gli animali ora stanno prendendo il fresco nella selva. Alcuni, però, si affacciano a salutarla.

Angela comincia la sua discesa verso la risalita. Con movimenti intermittenti delle anche scende abbracciando il tronco spesso che l’aveva portata da Galbuser. A ogni spinta si sente più leggera; ad accompagnarla, quasi impercettibile, il fruscio rincuorante della carta.

FINE


Valentina Malcotti©

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