martedì 30 settembre 2008

La notte porta consiglio

La baita è silenziosa, adagiata nella notte fresca del bosco. Il cielo oltre le sagome dei faggi è una coperta di velluto blu che protegge senza soffocare. Neanche uno sforzo d’immaginazione permetterebbe di visualizzare questo scenario in qualunque altro momento del giorno o della notte. La baita sembra poter esistere solo in questo momento preciso, con questa temperatura che attraversa il porticato in legno e si sofferma sul pianale granitico del grande tavolo.
L’angolo che i tiepidi raggi lunari disegnano sui cespugli curati di hibiscus, per rimbalzare sull’ampia vetrata incorniciata del legno, appartiene solo a questo allestimento. Così come la melodia irregolare delle cicale. È proprio l’esclusività dello scenario che lo congela nella persistenza di una pennellata, dentro a un quadro sonoro immutabile.
I profili della vegetazione rigogliosa sono disposti in un semicerchio perfetto e aprono uno spiazzo che ospita la baita. I contorni in bianco e nero del vecchio forno in muratura, delle panche di legno grezzo, del paiolo annerito e dell’enorme zerbino con due zampe d’orso stilizzate fanno da sfondo a questo chalet sospeso nella notte perfetta di un tempo perfetto.
Dall’interno la vetrata mostra ancora un altro disegno, incastonato tra le venature chiare della betulla. La baita è al buio ma è inondata da una luce bianca, eterea, che proviene in un unico grande fascio dalla vetrata. Il guizzo luminoso si posa caldo sul legno delle pareti, sulla stoffa quadrettata bianca e verde dei divani, sui grandi cuscini color panna. Il bianco lucido del piumone riverbera inondato dal bagliore della luna quasi piena e illumina il viso di Giovanni, sdraiato alla mia destra.
Sento le guance che bruciano. Giovanni ha appena finito di asciugarmi le lacrime con un ruvido pezzo di carta da cucina, l’unica pezza che abbiamo trovato in casa.
“Mio fratello è così, Viola, non c’è nulla da fare. Non cambierà mai. Forse non lo fa neanche apposta a trattarci tutti così male ma non possiamo sperare che lui si ravveda. Dobbiamo farci andare bene le cose nonostante lui. Dobbiamo essere felici nonostante lui perché la breve armonia che a volte riesce a portare nelle nostre vite è effimera ed è sempre seguita da altrettanta scontrosità e indifferenza”.
“Lo so…” dico ipnotizzata dall’esattezza delle sue parole. Solo Giovanni è capace di descrivere così precisamente Alberto. Oltre a me, solo lui conosce la dolorosa intensità di suo fratello.
“Mi piace pensare che quando non è annebbiato da tutta la rabbia che alberga in lui da sempre, ci voglia bene. A volte penso anche che in qualche modo assurdo lui ci voglia proteggere da un mondo che percepisce come minaccioso e traditore ma non può rischiare di perderci a causa di forze maggiori. Preferisce liberarsene lui, a priori, di tutto quest’affetto”.
La verità delle sue parole mi fa singhiozzare: “Perché non gli è sufficiente sentire il nostro amore. Io voglio solo amarlo. Non ne posso fare a meno, perché me lo nega? Perchè sporca tutto?”.
Giovanni si tira su e sistema il cuscino in modo da poter appoggiare la schiena contro lo stipite del letto.
“Viola, non sei tu che non gli basti. È questo mondo che non gli basta. Lui non trova la tranquillità per deporre le armi e si sente in una battaglia continua. Non la contempla neanche la serenità. Ogni volta che si dona a noi, è perché il suo cuore gli sfugge. Questa svista emozionale gli causa un pentimento che lo porta ancora più lontano di dov’era prima”.
“Ma io l’ho conosciuto, cazzo”. Capisco dal sussulto di Giovanni che ho alzato la voce e tento di recuperare un tono adatto: “Ci sono state volte nelle quali lui è stato se stesso, attimi in cui lui era me. È stato indifeso, disarmato e di una dolcezza commovente. E io l’ho amato ancora di più!”.
Le braccia sicure di Giovanni mi stringono, arginando il fiume di lacrime che scorrono sulla sua spalla. Il suo pile è morbido e profuma di sapone di Marsiglia. Riconosco l’aroma che apparteneva una volta ai vestiti di Alberto, quando viveva ancora con i genitori e la sua mamma gli faceva trovare le camicie inamidate. Anche Giovanni vive da solo ma i maglioni da montagna che abbiamo recuperato nell’armadio dovevano essere stati riposti con attenzione dalla mano materna.
Sarà più di un anno che i loro genitori non salgono allo chalet, eppure i plaid e le maglie pesanti che ci siamo subito infilati per sopperire al riscaldamento spento sembrano bucato appena fatto. Mi stacco lentamente dall’abbraccio di Giovanni e ritorniamo entrambi a guardar fuori dalla vetrata. La scena al di là del vetro sembra immutata. Il tempo è dalla nostra parte e sembra osservarci sdraiati completamente vestiti sotto il piumone.
“Tu non ti devi disperare così, Viola. Non devi permettere che questa situazione ti rubi l’entusiasmo, la spensieratezza. Oggi non sei la stessa personcina scanzonata che mio fratello mi aveva presentato sulla porta di camera mia, tre anni fa. Avevi un paio di pantaloni rossi, le scarpe vissute, la borsa di velluto a tracolla e un ombretto turchese che onorava la tua allegria. È per questo che lui si è innamorato di te; aveva intravisto una via d’uscita…”.
Sento il battito del mio cuore che rimbomba in tutto il corpo. Ho l’impressione che anche Giovanni percepisca un ticchettio provenire dal mio braccio destro appoggiato contro il suo costato.
“E perché non la vuole seguire questa via d’uscita? Perché ha permesso che arrivassimo a questo punto, che ci mischiassimo così le vite, il sangue, la pelle…”.
Giovanni mi guarda serio: “Lui non ci riesce, Viola; non può liberarsi del suo cinismo, della sua idea d’infelicità e di solitudine. Le sue offese, i suoi tradimenti manifesti sono il suo grido di dolore davanti alla rinuncia che deve fare; che vuole fare. Questa rinuncia sei tu. È dalla vita insieme a te che lui sente di dover scappare. Vuole in qualche modo tenerti lontana. Preferirebbe che tu lo odiassi perché sarebbe tutto più facile e si sentirebbe meno in colpa. Anche all’inferno vorrebbe andare da solo. Lui è cresciuto contando solo su di sé e il suo viaggio non prevede compagni. Lo vedi, neanche suo fratello è un punto fermo per lui, nonostante io sia sempre stato disponibile al confronto…”.
“Allora sono io che sono cambiata, non rappresento più la strada possibile per lui?” domando a denti stretti.
“Non è questo che intendevo” continua Giovanni “Dico che la vostra storia ti ha sottratto serenità e voglia di vivere - questo è lampante - ma i comportamenti di Alberto non dipendono da te. Purtroppo il tuo amore non può cambiare le cose e quando lui se lo trova davanti, questo sentimento travolgente e immenso, perde la testa per paura di smarrirsi dentro te. Questo è il significato delle sue tresche. Sono il suo scudo. Uno scudo che ti sta distruggendo”.
Sento una fitta a livello dei polmoni e mi concentro per spostare l’attenzione dalle immagini che stanno prendendo il sopravvento. Alberto sovrapposto a visi sconosciuti di donne: voci, capelli, profumi. Con una punta di orgoglio che intenerisce Giovanni aggiungo: “Lo so, lui mi vuole distruggere con i suoi racconti ma poi mi implora di perdonarlo. Mi dice che troveremo una soluzione per tutto quel rancore e poi mi fa sentire il suo amore limpido e so per certo che in quei momenti è sincero e non potrebbe fare a meno di me…”.
Giovanni annuisce. “Poi, però ce la fa sempre a spingerti di nuovo via. Tra di voi mette un’infinità d’insulti e bugie spezzando la magia con cattiveria e veemenza. È solo così che lui riesce ad andare avanti. Alberto, pur incomprensibilmente, ti ama profondamente; è la parte sotterrata di lui che ti ha scelto, per sempre. Questa scelta, però, non prevede la felicità. Non potrete mai avere un’esistenza serena insieme, Viola… Non in questo mondo”.
“Vorrei solo sparire dal mondo con lui; vorrei che una notte riuscisse ad addormentarsi accanto a me senza temermi. Invece le nostre serate assieme hanno un sottofondo di malinconia, per quest’amore che sentiamo impaurito e sfuggente”.
Adesso Giovanni mi sorride: “Non ti sto suggerendo di disinnamorarti. So bene che non è una scelta che un cuore può fare, così uno non può scegliere di innamorarsi. Sistema l’Alberto che solo tu conosci, quello in cui ti sei persa, nella parte più speciale del tuo essere e lui starà lì per sempre. Poi voltati e scappa da quest’Alberto che non fa che distruggere tutto quello che di bello lo circonda, anche le cose che lui stesso ha costruito. Devi farlo tu per entrambi perché lui non ha la forza di smettere di farvi male”.
Le parole di Giovanni escono una a una nel pallore della luna. Sono verità legate da un filo d’argento e sento che non le posso più ignorare. Un’improvvisa ondata di coraggio mi rinfranca. Mi tiro su da sotto il piumone e mi appoggio a Giovanni “Sai sono stata tante volte qui con Alberto ma non l’avevo mai capito questo posto. Non mi ero mai fermata a guardare fuori dalla vetrata. Insomma, non l’ho mai vissuta veramente questa casa”.
“Non sai quante cose meritano di essere vissute Viola…”.
“A volte penso che non avrei mai voluto conoscerlo tuo fratello. È una cosa orrenda da dire, lo so”. Lo dico tutto di un fiato.
Giovanni abbozza una risata e posa le labbra leggere sulla mia fronte. Mi sento al sicuro tra quelle pareti, sotto un cielo che sembra fatto su misura per avvolgerci. All’improvviso il bagliore della luna si fa molto più luminoso e mi trovo a strizzare gli occhi per contrastare i raggi accecanti. Quando li riapro, capisco subito che non sono più nello chalet ed emetto un verso dettato dallo spaesamento improvviso. Il sole arriva caldo sulle lenzuola e sembra tagliare a spicchi la polvere che aleggia intorno alle tende. Metto a fuoco la stanza senza mobili di Alberto e sospiro.
“Cosa c’è?”.
Mi arriva la sua voce seria da dietro la spalla. Mi giro e vedo subito che anche oggi non è di buon umore, quindi trattengo la voglia di dargli un bacio. Mi avvicino e presa dall’entusiasmo gli dico: “Pensa che ho sognato una cosa assurda stanotte”. Vedo che non cambia espressione e capisco che non riuscirò a emozionarlo.
Le promesse della sera prima sembrano già lontanissime da quella stanza. Eppure sono passate poche ore da quando, con gli occhi lucidi, mi ha stretto al suo corpo nudo dicendomi: “Tu sei nelle mie vene; sei l’aria che respiro. In qualche modo impareremo a stare insieme”. Non volendo rovinare il momento sono riuscita solamente a replicare: “Ma io ho già imparato, Alberto. Sei tu che hai bisogno di ripetizioni”. Le sue mani tenevano già i miei palmi fermi contro il cuscino mentre con le labbra inghiottiva le mie parole scomode in baci vigorosi.
Poi ci fu calore, ebbrezza e speranza.
Adesso lui era già estraneo ed io una straniera nel suo letto.
“Che cosa hai sognato?” continua con tono incolore.
“Niente, che ero alla baita con tuo fratello e parlavamo di noi; di me e te”.
Il senso di estraniamento che ho avvertito al risveglio non mi ha abbandonata ma la tipica stretta di dolore delle viscere, quella che la gelata incomunicabilità di Alberto scatena in me, ha una presa più debole del solito.
“Ma che dici? Io non ho un fratello” commenta graffiante Alberto.
Sono consapevole che ha già perso interesse data l’incredibilità della falsa premessa.
Sorrido con distacco: “Infatti, ma grazie a Dio io l’ho conosciuto” replico alzandomi dal letto sfatto con un balzo.
Dentro di me le parole di Giovanni, il fratello che non mi pento d’aver conosciuto; il fratello che parlava alla luna. È la scia argentata dei suoi consigli che ora mi mostra la via.
Valentina Malcotti©

1 commento:

Squilibrato ha detto...

Complimenti per il blog, passavo di qua.