giovedì 26 luglio 2007

The Sea and I

Quando si è piccoli si vivono delle giornate ridondanti di emozioni. Ore accompagnate dall’ entusiasmo costante di chiedere tutti quei “perché” e farsi spiegare mille volte dai genitori i programmi del giorno, senza mai stancarsi delle loro parole. Spesso non comprendendo, se non molti anni più tardi, perché anche loro non camminavano sollevati da terra al pensiero di quei giorni ricchi di impegni, incontri e spostamenti. Abitudine, stanchezza e paura: parole che il vocabolario di un bambino non conosce.
Mi sentivo così eccitata quell’ estate dell’85 mentre guardavo le figure dei miei familiari che mi salutavano dai finestrini in plastica arrotolati del Rocky Daihatsu bianco. Il mio primo agosto sola, a casa dei miei zii. Al mare. Il mare ligure, quello più scuro, con l’acqua che diventa subito alta, con i sassolini scomodi che fanno male ai piedi scalzi e si incastrano nella schiena appoggiata sulle spugne colorate dei teli. Su quelle spiagge affollate da secchielli e sandali c’era, in sottofondo, quel odore di reti da pesca abbandonate sott’acqua la notte. Forse era solo odore di pesce che, all’età di quattro anni, io chiamavo «puzza di mare». Un’essenza che non ho mai sentito nel mare isolano che avrebbero raggiunto i miei con una traversata notturna in traghetto. I profumi dolciastri degli arbusti sardi regalano alle acque dell’isola un aroma di fiori salati.
Mi avevano lasciato al porto di Genova dove mi aspettava mio zio. Ugo, l’arbitro di tennis, che giocava a parare le palline di scotch e carta calciate da suo figlio. I piedi scalzi ancorati alla moquette blu della camera di mio cugino, difendeva la porta immaginaria sul lato lungo del divano a letto a strisce. Era su un altro divano quando appena cinque anni dopo se n’è andato sereno, in silenzio con, si narra, un sorriso sulle labbra.
Ricordo infinite scene di quei giorni. La conserva dolce dentro a quei vasetti “Quattro stagioni” che ho visto in ogni casa italiana in cui son stata, la merenda con i mini stick alla menta nel freezer lindo di zia Maria, la polverina “Cristallina” per fare l’acqua frizzante nell’ ex bottiglione del vino. E poi l’odore fresco e acre della terra rossa dei campi da tennis sotto casa, le partite a poker con i vicini, seduta sulle ginocchia degli zii. La focaccia di Recco che, come dice mio cugino Alessio con il suo accento mezzo piemontese, mezzo friulano ma interamente ligure, fa diventare la lingua «felpata».
Fu l’estate delle “prime volte”. Non solo i primi giorni sola, lontana da casa ma la prima volta che sono salita su un pullman, la prima (e unica) volta che ho assistito in tribuna a una partita di tennis, il primo incontro con il cubo di Rubik, senza sapere che non avrei mai risolto il rompicapo dell'ingegnere ungherese.
Ma la curiosità che mi aveva tenuta sveglia la notte prima era che avrei preso il mio primo treno. Un «treno doppio», così l’avevo definito a bocca aperta per lo stupore. Aveva carrozze a due piani che ci portavano da Genova Principe a Chiavari. Seduta accanto a mio zio con i pantaloncini corti e i piedi a penzoloni guardavo Genova sfrecciare dal finestrino. Pezzi di edifici, balconi, panni stesi intervallati da quadrati di mare e di sole.
Tutte immagini ora stipate nella mia valigia di ricordi ma che, al tempo, mi riempivano di emozioni. Erano concerti di mille farfalle che si alzavano in volo all’unisono nel mio giovane stomaco. Uno stomaco che riempivo secondo quelle regole uniche e magiche che appartengono solo alla dimensione celeste dei bambini. Da piccola volevo mangiare unicamente «le cose con una cosa sola». Nel senso, come l’avevano capita i miei e tramandata a me, che se mi davano un panino “prosciutto e formaggio” io volevo solo l’affettato o solo il latticino. Adesso è il contrario. Nei miei sughi preferiti navigano tantissimi ingredienti: pomodoro, cipolla, pancetta, uova, zucchine, mozzarella, sedano, carne tritata, panna e pesto. Forse è una trasposizione delle esperienze di vita che non ho lasciato andare. Non si riesce più ad archiviare gli eventi senza rancore una volta che la vita comincia a fare un po’ di paura.
Quella fu l’estate di Chiavari e di Lavagna. Molti anni dopo Lavagna diventò un sussulto al cuore, vele bianche gonfie di vento e le braccia di uno skipper improvvisato che ora è un fantasma.
Il mare c’è stato in quasi tutti i momenti simbolici della mia vita. Mari diversi, certo, ma in fondo il mare è sempre uno solo, come il cielo. Ero al mare quando ho fatto i primi passi. Inginocchiata in riva al mare, con una pezza bagnata premuta sulla bocca, ho avuto per la prima volta paura di morire. Davanti al mare si è fermato per la prima volta il tempo mentre mi perdevo in un paio di occhi scuri. Con il mare ho condiviso promesse non mantenute, affidando poi alle sue acque le lacrime asciutte della rabbia.

Ma un’onda di gioia e conferma mi travolge all’idea che è stato il mare del Sud a dare i natali alla mia metà, l’uomo con i girasoli negli occhi e il sorriso contagioso di un cucciolo divertito. L’abbraccio solido e sincero in cui mi addormento ogni notte e il profilo che amo spiare al mattino quando, sempre per prima, apro gli occhi.
Sono pensieri mescolati, connessi da logiche che obbediscono unicamente a personali slanci emozionali e, forse non a caso, hanno le sembianze sciolte dell’elemento marino.
L’unico modo degno che trovo per ringraziare queste acque per la loro presenza rassicurante e per avermi cullato in questo quarto di secolo è attraverso le parole di Hikmet, nel suo omaggio al mare dell’Antalya in cui mi sono bagnata anch’io:


“Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare
mi porto un po' della tua ghiaia
un po' del tuo sale azzurro
un po' della tua infinità
e un pochino della tua luce
e della tua infelicità.
Ci hai saputo dir molte cose
sul tuo destino di mare
eccoci con un po' più di speranza
eccoci con un po' più di saggezza
e ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare.”

Valentina Malcotti©
Nazim Hikmet"Arrivederci fratello mare"

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