giovedì 6 maggio 2010

Il pranzo di corallo

«Mi ha trattato con pesci in faccia», sentenzia Margian nel suo italiano buffamente colto, strabuzzando i suoi grandi occhi castani tempestati di pagliuzze verdi. Continuo ad osservarla mentre arrotola gli spaghetti con cura certosina e la mia attenzione ruota ai tavoli vicini dove forchette di bancari torinesi puntellano distrattamente piatti di fettuccine al pesto. Il mio sguardo torna sulle mani curate della donna iraniana che mi siede davanti. Non mi stupisco dell’intensità con la quale affronta un piatto di pasta. Nonostante siano più di trent’anni che passa le sue giornate in questo stivale di terra, non dà per scontato il piacere gastronomico di gustare. Un diletto che, spesso, negli autoctoni, rapiti dalla quotidianità, si è addormentato.

Ancora affascinata dalla maestria con cui avvolge le fettuccine, mi concentro sulla sua scelta di parole. Il suo modo di dire «escusami» quando sta per chiedere qualcosa di personale e la pronuncia rotonda che dona ai nomi italiani caricandoli di regalità istantanea. Come creta ha modellato la sua laurea in Letteratura straniera, amando tutte le parole. Scandendo le analisi con passione, sotto l’alone giallo di abat-jour. Con la complicità dei suoi uomini-padri che l’hanno ascoltata annuendo mentre commentava il teatro di Checov e gli ideali di Joyce. Quando i suoi occhi erano più segnati, le hanno regalato i Bignami per facilitare il ripasso, cullandola come una studentessa italiana alla vigilia della maturità. L’amore per questo Paese, però, è stata una conquista solo sua. I modi di dire li ha assimilati cercando la compagnia e i consigli degli italiani; mischiando le sue storie con le loro, i suoi proverbi con quelli che sentiva qui.

Non ho smesso di ascoltarla mentre mi racconta della discussione avuta ieri con un fornitore della ditta di tappi in sughero in cui lavora part-time. Mi parla di maleducazione, bolle di accompagnamento e sconosciuti Comuni della cintura torinese ma io non mi stanco di sorridere alla sua eleganza, lasciandomi ipnotizzare dal tintinnio melodico dei bracciali che scivolano sulla manica del suo cardigan arancione. Era vestita d’autunno anche la prima volta che l’ho incontrata e anche quel giorno il suo viso mi aveva scaldato il cuore mentre mi passava la boccetta di olio ayurvedico.

All’inizio era l’amica del corso di massaggio indiano, in un anno che portava solo novità davanti alle quali non esitavo. Come l’iscrizione allo stage annuale di massaggio ayurvedico organizzato dal Centro italo-indiano di Torino, a pochi passi dalle rive del Gange torinese. Nel gruppo eterogeneo di nativi italiani in cerca di vibrazioni d’Oriente mi aveva colpito l’entusiasmo maturo e controllato di questa donna iraniana, capace di grandi scambi e sintesi culturali senza fini politici. Fra una seduta e l’altra rispose alle mie curiosità, narrandomi le sue radici con infinito rispetto e una punta di malinconia.

La Persia nelle sue parole, nei pomeriggi che dedica a preparare il tè. Due protagonisti assoluti: una teiera a tinte forti per ospitare l’essenza concentrata e un bollitore d’acciaio abbagliante che, in una nuvola di vapore, stempera e stabilizza l’aroma, allungando di volta in volta l’infuso.Petali di rosa, cannella, gelsomino, zenzero; un tripudio di fragranze per salutare il sole che tramonta nei pomeriggi gelidi d’inverno. Il tutto accompagnato da colorati dolcetti persiani che compra a Porta Palazzo, la fucina per eccellenza dei sapori d’Oriente a Torino. Margian non si muove solamente fra i banchi della multi etnica Porta Palazzo ma è diventata esperta contrattatrice anche ai mercati rionali in cui si destreggia con qualche termine piemontese: «c’an daga» è il suo incipit preferito. Terminata la spesa, carica tutto sulla sua berlina blu soddisfatta di non essere «scesa alle compromesse».

Un’operazione dispendiosa quella del tè che, magicamente, sembra durare quanto necessario per accompagnare la conversazione. Perché parlare è un piacere anche se è faticoso ricordare gli anni dello Scià e quelli più duri, dopo la rivoluzione di Khomeyni. I cambiamenti percepiti nei sempre più rari viaggi che faceva alla sua terra natale. Suo fratello, emigrato in Germania. L’arrivo in Italia, in veste di studentessa a Padova e poi il matrimonio, sempre in Italia, con un uomo iraniano. Il fallimento coniugale e le sue tante altre scommesse: i corsi di meditazione, l’import export di essenze e le famiglie che si è saputa inventare.

«Non ti piace cibo? Vuoi prendere altro?» mi chiede preoccupata. Forse mi vede assorta. La trattoria l’aveva scelta lei perché fosse comoda al mio lavoro e già la ringraziavo di questa nuova scoperta che si aggiungeva a tante altre chicche culinarie - medio-orientali e non - alle quali mi aveva introdotto.

Un’estate, sdraiate su una spiaggia sarda, Margian mi confessò la sua forte nostalgia per le vacanze passate sul Mar Caspio con tutta la famiglia. Le lunghe passeggiate sulle sabbie dorate delle rive del lago salato più grande del mondo. Il vento fresco al calar del sole attraversava l’ampio patio della casa di Babolsar mentre Margian e le sue sorelle apparecchiavano per la cena e fissavano emozionate il kabab d’agnello che coceva lento sul carbone. Con la stessa lentezza lo zafferano colorava il riso e l’allegria invadeva la tavolata mentre il vento restava un ospite gradito, portando lontano il profumo seducente del carbone, verso le immense vallate verdi che incorniciano la fetta Iraniana del Mar Caspio.

L’esperienze persiane più intense che ho vissuto, però, rimangono i capodanni iraniani organizzati da Margian con invitati misti: piemontesi, napoletani e persiani. Ogni anno, da tre millenni, una data precisa: il 20 marzo, calibrato al minuto e, addirittura, al secondo. Una tavola imbandita con sette ingredienti, i cui nomi in farsi, la lingua persiana, cominciano con la consonante “s”, saluta il vecchio anno e dà il benvenuto al noruz, il nuovo giorno. Mi offrirono pesce, per aiutare la fortuna; monete, per stimolare il guadagno; specchi, per raggiungere la chiarezza di spirito; mele, per non dimenticare il peccato originale; aceto per annunciare la trasformazione; grano per ammirare la crescita della coscienza e, infine, un’universale treccia d’aglio, per allontanare gli spiriti maligni, così come facevano le mie pro zie nelle stanche campagne piemontesi del dopo guerra.

Margian ha già riposto le posate a formare le quattro e venti, così come insegna il galateo. Con un concerto di stoviglie e porcellana, il giovane cameriere libera il tavolo. «Prendiamo dolce?», mi domanda inclinando la testa per comunicarmi il desiderio di ricevere una risposta affermativa. «Volentieri», ribatto decisa mentre Margian è già intenta ad ascoltare, annuendo, la lista di dessert declamata a memoria dal cameriere. Terminate le ordinazioni, Margian abbassa lo sguardo sulla tovaglia e con un movimento circolare spazza via delicatamente alcune briciole di pane. I suoi occhi si perdono per un attimo sul bordo del tavolo permettendomi di scorgere le nuvole blu petrolio che tingono le sue palpebre splendidamente truccate, interrotte da due tratti decisi di kajal grigio malachite.

La prima volta che le feci i complimenti per il suo trucco Margian mi confessò che tutto quello che aveva imparato sull’arte del maquillage veniva dai suoi giovanili anni di teatro in Iran. Dietro le quinte Margian carpì le tecniche per valorizzare il viso; un’abitudine che per lei resta un simbolo di solidarietà verso le donne iraniane che in questi trent’anni di dittatura hanno continuato a condurre una rivoluzione silenziosa, resistendo attraverso piccoli gesti quotidiani quali truccarsi il viso, anche se il regime lo vieta, per ritagliarsi un angolo di cielo.

Più volte la mia immaginazione è volata, a braccetto con i ricordi di Margian, a quelle serate dell’alta borghesia Persiana, trascorse negli eleganti salotti di via Pahlavi, tra un tè al Hotel Sheraton ed un pianobar soffuso al Tetto di Tehran. Questo accadeva decenni fa e Margian sa che sono memorie delle quali non troverà più la matrice; sono ricordi che, in qualche modo, le sono stati rubati. Per resistere alla tristezza di questa sottrazione, spesso si sogna bambina mentre corre all’impazzata per le discese dell’antico Bazar di Tehran, fermandosi solo per prendere fiato e guardare la luce che filtra dalle cupole forate del grande mercato. Distese di curcuma, zenzero, cardamomo, zafferano, somagh, mischiate a centinaia di altre spezie formano un mosaico colorato nel suo ricordo e pizzicano le narici con l’essenza delle sue radici.

Il mio vagare deve avermi nuovamente incantato perché metto a fuoco Margian che mi sventola decisa una bustina di zucchero e mi accorgo che siamo già al caffè. Torno a osservarla mentre sorseggia il suo espresso, rigorosamente lungo, e comincia, su mia richiesta, a raccontarmi dell’ultima conferenza sulla materializzazione e la scrittura automatica. So che se in questo momento le dicessi, «sai, sono sette anni che ci conosciamo», lei mi parlerebbe della kabala ma anche della smorfia napoletana e delle vite che si rincorrono come il giorno e la notte. Oppure del perché sette è il numero topos e delle sorprendenti tracce della numerologia Maya nel sufismo. Forse sentirebbe il peso del tempo e rivedrebbe i colori dei vestiti di sua madre, ancora oggi elegante nella sua recente vedovanza.

Sarà la suggestione dell’argomento ma in questa luce bianca di mezzogiorno, l’intimo torpore del dopo pranzo mi svela una figura tanto conosciuta quanto nuova. Dinanzi a me risplende un meraviglioso pezzo di corallo, nel senso greco del termine kura-halos, ovvero ‘forma umana’. Lo scheletro calcareo rosso rubino riflette sul tavolo spirali luminose e rassicuranti che si aprono in pregiate diramazioni. Seduta di fronte a me c’è ancora Margian (dal persiano ‘corallo’), la mia preziosa amica di corallo, che insiste nel pagare il conto: «Non fare il complimento; tu sei la mia ospite!».

Valentina Malcotti©

1 commento:

Daniel ha detto...

Un bellissimo scambio di culture.
Leggerti arricchisce.
un saluto
Daniel