Siccome avevo preso un altro brutto voto, mio padre mi disse:
«Va bene, allora oggi verrai con me a lavorare. Così vedrai come si fatica!»
Mio padre faceva il giardiniere, e andava in giro per i giardini altrui. Andava a potar piante, rastrellare foglie e tagliare erba col suo potente tagliaerba.
Quel giorno doveva occuparsi niente meno del giardino dei terribili Lorchitruci.
I Lorchitruci erano la famiglia più ricca e potente della collina. A me facevano paura due cose di loro: il nome, perché mi veniva da pensare a degli orchi molti truci; e il giardino, appunto, perché era chiuso da una muraglia gigantesca dietro la quale chissà che cosa mai si nascondeva.
Avevo sentito mio padre dire alla mamma che l’avvocato Lorchitruci lo pagava sempre in anticipo e con regolarità. Partivano spesso per lunghe vacanze e io fantasticavo sui loro incredibili viaggi negli angoli più remoti del globo. Stavano via anche un mese intero e mio padre si prendeva cura del giardino e della collezione di cactus rari a cui Alberico Lorchitruci teneva tanto. Così tanto che una sera, quando eravamo già tutti a dormire, l’avvocato aveva telefonato preoccupato per una delle sue piante grasse. Avevo origliato con i piedi nudi sul pavimento freddo:
«Che modi sono? Telefonare a mezzanotte per i pidocchi di un cactus!», aveva detto la mamma scocciata.
Seduto sul sedile consumato del furgone verde avevo le farfalle nello stomaco perché potevo stare davanti e respirare a pieni polmoni quel buon odore di erba e terra.
Mio padre mi guardava con la coda dell’occhio mentre affrontava i ripidi tornanti che portavano fin in cima, a Casa Lorchitruci.
Era ancora arrabbiato per la nota sul diario che aveva letto a colazione: "L'allievo ha lasciato nuovamente la verifica in bianco". Con la stessa penna rossa la maestra Sbuccio aveva piazzato un bel 3. Io e la mamma avevamo deciso di dirglielo quando tornava per pranzo ma lui si era messo a sfogliare il diario che avevo lasciato sul divano. Senza alzare la voce mi spedì a togliermi il pigiama e a mettermi un paio di scarpe vecchie. Era sabato, il giorno di Ognissanti, e non poteva iniziare meglio per un bambino di otto anni come me.
Nonostante il timore per l’imminente incontro con i Lorchitruci, non stavo nella pelle dall'emozione ma mi fingevo dispiaciuto per non deludere mio padre.
«Quanto staremo lì, Papà?», gli chiesi timidamente quando fermò il furgone davanti al cancello in ferro battuto.
«Resteremo il tempo che ci vuole, Remo», mi disse cercando il mio sguardo.
Lo ascoltavo con un solo orecchio, con gli occhi puntati sui due grossi cani al di là del cancello: uno bianco come la neve della baita di Nonno Fredo e l'altro nero come la notte quando mi faccio lasciare la luce accesa. Erano immobili, con i muscoli tesi, ma non abbaiarono neanche quando mio padre suonò il citofono. Distratti da una strana melodia, sparirono dietro il muro coperto d’edera mentre il cancello si spalancò cigolando.
Parcheggiammo in uno spiazzo appena varcata la muraglia, senza percorrere il viottolo di ghiaia che portava alle scale in pietra dell’ingresso. Nessuno ci venne incontro e mio padre, abituato all’accoglienza, cominciò a lavorare a testa bassa.
Mi sporse il sacco nero e mi disse di seguirlo mentre rastrellava le foglie. Obbedii, standogli dietro per l’intera circonferenza del giardino.
«Remo, finisci di raccogliere questi mucchietti che io inizio a tagliare l’erba di là.»
Lo guardai scomparire dietro l’angolo con il suo rastrello. Tutto quel movimento mi aveva fatto venire caldo e abbassai la cerniera del giubbotto. Su un davanzale notai un flauto, uguale a quello con cui ci esercitavamo a scuola, guardato a vista dai due cani che intanto si erano sdraiati al sole debole di novembre. Mi venne voglia di suonarlo ma il rombo assordante del tagliaerba mi distolse e ripresi a riempire il sacco velocemente, un po’ intimorito di dover restare lì tutto solo. Raccolta anche l'ultima foglia, mi misi il sacco in spalla e m'incamminai verso l'altro lato del giardino quando mi trovai davanti un Lorchitruci in carne ed ossa.
Non era un orco perché era un bambino, a occhio e croce, della mia età. Non era neanche truce, aveva un sguardo dolce. Era seduto su una di quelle sedie con le ruote, uguale a quella che spingeva la mamma con la vecchia zia Lea sopra.
«Guardavi questo?», disse portandosi il flauto alle labbra. Le sue note piacquero ai cani che gli andarono incontro scodinzolanti.
«Lo uso per chiamare Autunno e Argento.»
Indicò i cani.
«E a te cosa serve quel sacco?», aggiunse.
«Aiuto mio padre», risposi deciso.
«Me lo fai vedere, per favore?», domandò curioso.
Feci tre passi avanti e gli mostrai il sacco aperto. Prese due foglie a caso e le osservò per un attimo. Passò il dito sul bordo di quella più piccola e disse:
«Questa è lobata, sarà della quercia.»
La rimise nel sacco e mi tese l’altra.
«Questa è cuoriforme; ha la forma di un cuore capovolto. Vedi? È caduta dal pioppo.»
Non mi diede il tempo di replicare che mi fece segno di avvicinarmi. Con mia grande sorpresa si diede una spinta e si mise in piedi appoggiandosi a me. Era leggero e profumava di bagnoschiuma.
«I muscoli delle mie gambe sono pigri. Prendo tanti aerei, dormo in tanti letti e vedo tanti dottori. Presto le mie gambe mi porteranno lontano.»
Lo disse con un sorriso. «Vieni, ti faccio vedere la collezione di tutte le cose che farò da grande.»
Lo sorressi fino all’entrata di una serra, a lato della casa, piena di piante grasse. Erano almeno cinquanta, di tutte le forme e grandezze. Ognuna aveva una targa con il nome. Lessi Bicicletta sotto ad un cactus dritto e stretto con due protuberanze rigide per parte, mentre Pallone era il nome di una mezza sfera spinosa coperta di piccoli fiorellini bianchi.
«Ti piacciono?», mi chiese il bambino biondo dagli occhi verdi.
«Sì, ma non si possono toccare con tutte queste spine.»
Sorrise per la seconda volta da quando mi era apparso:
«Quelle sono le mie difficoltà. Devo superare lo strato di spine.»
Il vocione di mio padre ci fece sussultare.
«Remooo! Vieni che ho finito!»
Uscimmo senza dir niente e lo accompagnai fino alla sua sedia.
«Allora ciao, Remo. Io sono Martino.»
Fece un cenno con la mano. Ci fissammo entusiasti per qualche secondo poi raccolsi il sacco e corsi da mio padre che mi aspettava con il motore acceso.
«Allora, hai visto che fatica il lavoro? Non è meglio studiare sui libri che raccogliere foglie?», disse imboccando la discesa verso casa.
Annuii guardando fuori. Decisi che avrei studiato per tutte le verifiche della Sbuccio. Dovevo finire presto la scuola e diventare grande, così potevo fare il giardiniere e andare a trovare Martino tutti i giorni.
Valentina Malcotti©
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