lunedì 21 luglio 2008

p.s. I Love you (Recensione d'inverno)

P.s. I love you, ovvero post scriptum: sto facendo di tutto per aggredirti con la malinconia della perdita, mascherandotela con ironiche battute e gelate in (im)perfetto stile british, con il preciso intento di farti correre alla toilette del cinema a cercare un pezzo di carta igienica per soffiarti il naso, visto che il tuo cinismo da cinefila d’essai non ha previsto un coinvolgimento. Sembra riferirsi più o meno a questo il titolo del lungometraggio firmato dal curioso Richard LaGravenese, all’attivo, oltre a varie sceneggiature fra le quali I Ponti di Madison County e L’uomo che sussurrava ai cavalli, un’unica regia individuale, Freedom Writers (2007), mai uscito in Italia ma apprezzato dai critici americani.

Ripete la scelta della spigolosa Hilary Swank, già protagonista del suo film precedente insieme all’ormai celebre Patrick Dempsey (il dottor Stranamore di Grey’s Anatomy), che smussa parzialmente la solennità della trama impedendo allo spettatore di soccombere fatalmente nella tristezza di un viso troppo dolce. Holly (H. Swank) e Jerry (G. Butler) sono una coppia complice e affiatata, sposati giovani e insieme da quasi dieci anni. I due mostrano la solidità dell’unione nella lunga sequenza iniziale (l’unica in cui Jerry è “vivo”) che narra un rapporto costellato sia da comuni preoccupazioni economiche/lavorative sia da ansie di maternità ma protetto da un amore sincero che continuerà a essere un collante anche dopo la prematura scomparsa di Jerry.

Venti intensi minuti di dialogo e coccole (con tanto di goffo striptease del magnifico irlandese Butler) e lo spettatore, già proiettato e “affezionato” alle loro vite, si trova davanti all’urna, disegnata dalla stessa Holly, contenente le ceneri dello sfortunato Jerry. Risparmiato il calvario del tumore al cervello, lo spettatore è lanciato nel mondo quasi sospeso che il dolce Jerry aveva preparato per scortare la sua Holly nell’inevitabile percorso di dolore dopo la sua tragica scomparsa. Per un anno la vedovina viene guidata dalle parole delle lettere post-mortem del marito che proteggendola, consigliandola e anche ascoltandola - quasi anticipandola - la aiutano ad attraversare il fiume del lutto conducendola, salva, alla sponda di una nuova esistenza.

Coinvolgendo le amiche svitate di lei (Lisa Kudrow e Gina Gershon) e la mamma esitante (una centratissima Kathy Bates) le lettere di Jerry “preparano” serate karaoke, torte di compleanno e, addirittura, un lungo viaggio in Irlanda alla ricerca di romantici flashback del loro innamoramento ma anche di orizzonti da cui ripartire. Una scelta che poteva diventare quasi egoista quella di Jerry se non fosse giunta a un ultimo p.s. (un “I love you” che inserisce al termine di ogni missiva): “tu sei stata la mia vita e io solo un capitolo della tua”. Un messaggio di riconoscenza e di speranza, ideato come motore per spronare Holly ad andare avanti, anche come donna, con nel cuore l’appoggio e l’amore incondizionato di chi se n’è andato troppo presto.

Una rinascita che passa anche attraverso l’aiuto dello stralunato Jeffrey Dean Morgan (William), il Denny del fortunato Grey’s Anatomy. A mitigare la tristezza ci sono le potenti immagini dei campi di lavanda immersi nell’intenso verde irlandese, i sorrisi disarmanti del romanticissimo Gerard Butler (lontano dai panni dei sanguinario re Leonida di 300) ma anche il dubbio di sottofondo che l’aggrapparsi a ricordi felici banalizzi in qualche modo i dolori reali della perdita e culli un’illusione che non rigenera vita ma può causare la morte dei sensi.

La vicenda, in fondo, è quella proposta in svariate salse da Hollywood (Ghost, The Notebook) ma è di casa anche da noi. Penso, ad esempio, a Per Sempre (2003) in cui Francesca Neri, prima di approdare a una fine drammatica ma liberatoria, viene sorretta e aiutata dalla “presenza” del defunto compagno, Giancarlo Giannini, che aveva lasciato precipitosamente prima che morisse. L’entourage di amici dell’inconsolabile Holly non convince nel ruolo di intervallo comico e non è neanche paragonabile allo humor vincente che Whoopi Goldberg ha regalato, quasi vent’anni fa, in Ghost nei panni della pittoresca veggente Oda; interpretazione che le valse un Oscar.

È Holly stessa a regalare il leitmotiv più divertente - e dissacrante - sfoggiando, nelle sue serate, l’urna del marito come fosse una pochette. P.s. I love you, che nelle sue parti più buffe è rallentato da qualche traduzione, non risparmia né lacrime né sorrisi a denti stretti. Rassicura, sui titoli di coda, il calore della splendida voce di James Blunt che nella sua Same Mistake sembra dar la parola a Jerry, ricordando che: “there is no place I cannot go”.

(Recensione di Valentina Malcotti©)

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