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giovedì 24 luglio 2008
INTO THE WILD - RECENSIONE SELVAGGIA
Un concetto che andrebbe applicato anche dai distributori internazionali alla scelta delle parole atte a veicolare i titoli originali delle opere. In Italia, l’ultimo lavoro di Sean Penn (attore e già regista, tra gli altri, di La promessa e Lupo solitario), ispirato a una storia vera racchiusa in un romanzo cult (Into the wild di Jon Krakauer), è sbarcato accompagnato da grande entusiasmo ma con la solita traduzione ingannatrice che priva il titolo di una dimensione importante. La scelta del doppio titolo Into the wild – Nelle terre selvagge sembra fossilizzarsi sul termine “terre”, senza dare sufficiente risalto al concetto di “wild” (selvaggio), identificando come topos supremo le selvatiche lande dell’Alaska, le vaste distese agricole del sud degli Stati Uniti e le accoglienti oasi hippy del deserto in cui fa tappa Alex Supertramp (interpretato da Emile Hirsch).
Alex il super vagabondo; il nome da battaglia di chi sceglie il suo destino. Il selvaggio è nelle terre che Alex brama ma, soprattutto, nei meandri inesplorati e tortuosi dell’animo umano e nella ricerca quasi ossessiva del significato cosmico dell’esistenza terrena che il ventenne non trova nella nervosa e asettica società contemporanea e nelle gabbie infelici costruite dai suoi genitori.
È questa missione bruciante che spinge Chirs (Alex), fresco di laurea e proiettato verso una promettente carriera, a lasciare tutte le persone, i ruoli e le cose che fino a quel giorno lo definivano per lanciarsi nella grande avventura, senza l’ausilio dei soldi, di raggiungere e vivere i ghiacci dell’Alaska, magistralmente fotografati da Eric Gautier (già premiato per la fotografia di I diari della motocicletta).
Solo, se non per la compagnia delle descrizioni di Jack London, delle riflessioni di Tolstoj e dei consigli di alcuni personaggi che sfiorano il suo percorso verso Nord, vagabonda con una meta ben precisa, l’Alaska, dove, nonostante la conclusione drammatica, sembra riconciliare il suo essere assaporando prima una simbiosi con la natura e poi immergendosi con rinnovata chiarezza nella centralità che ha la condivisione nell’esistenza umana. Tra le ultime parole che la sua mano stanca e denutrita riesce a far scivolare sulla pagina di un libro consumato dalle sue mille letture c’è un pensiero lucido: “la felicità è reale solamente se condivisa”.
Come il fiero cane Buck di Jack London che trova la sua essenza nella solitudine contemplativa offerta dalle terre selvagge di montagna ma sceglie l’esistenza come maschio alpha in un branco di lupi, così Alex intuisce in un esasperante rush finale, sotto lo sguardo azzurro cangiante del cielo, che forse la vera serenità non è quella conquistata nonostante gli altri ma quella costruita insieme agli altri.
Ritorna a riconoscersi “figlio”, spogliandosi della falsa protezione del suo soprannome per tornare a essere Christopher McCandless. Resta in lui, e nello spettatore, il dubbio ansioso che queste vittorie spirituali non sarebbero esistite senza la sua avventura egoista (per due anni non ha più fatto sapere nulla di sé alla sua famiglia), senza fuggire all’immobilità di coscienza imposta da vite governate dalla rabbia e dall’insoddisfazione che imprigionavano i suoi genitori e tanti altri.
Al ritmo rauco ma melodico del leader dei Pearl Jam, Eddie Vedder, Alex sale sulle montagne, in sequenze degne di National Geographic, per tuffarsi in catartici laghi alpini e calarsi nei meandri dell’animo umano a riconciliarsi con la natura e, di riflesso, con se stesso. Già motivato da un rispetto quasi reverenziale per la flora e la fauna che lo circondano, si misura con l’impotenza dell’uomo di fronte alle supreme leggi della natura (il fiume in piena che gli impedirà di salvarsi e le bacche che lo avveleneranno) e disperato per l’inutile morte dell’alce prova sulla sua pelle, guardando in faccia, senza filtri, la natura, il senso di alienazione della nostra specie ormai snaturata dalle imposizioni di civilizzazione. Un’inadeguatezza simboleggiata dal suo fallimento di conservare la carne dell’animale che viene intaccata dalle larve delle mosche e poi divorata dai lupi.
Da spettatrice mi piace pensare che Chris (Alex) prosegua il suo viaggio ultraterreno sul Magic Bus 142, lasciando a chi è riuscito a guardare attraverso i suoi occhi puri il dono di scorgere la gioia che esiste in tutte le cose: nel volo composto dei gabbiani al tramonto, come nelle richieste d’affetto segnate sui visi che ha incrociato nel suo vagare ordinato. Tutti ricchi personaggi che amandolo, perché è impossibile non innamorarsi del suo dolce coraggio, gli hanno lasciato un pezzo di loro stessi: l’arte di un mestiere, un cappello di lana, una cintura da intagliare, una canzone, da portare con sé, “into the wild”.
(Recensione di Valentina Malcotti©)
lunedì 21 luglio 2008
p.s. I Love you (Recensione d'inverno)
P.s. I love you, ovvero post scriptum: sto facendo di tutto per aggredirti con la malinconia della perdita, mascherandotela con ironiche battute e gelate in (im)perfetto stile british, con il preciso intento di farti correre alla toilette del cinema a cercare un pezzo di carta igienica per soffiarti il naso, visto che il tuo cinismo da cinefila d’essai non ha previsto un coinvolgimento. Sembra riferirsi più o meno a questo il titolo del lungometraggio firmato dal curioso Richard LaGravenese, all’attivo, oltre a varie sceneggiature fra le quali I Ponti di Madison County e L’uomo che sussurrava ai cavalli, un’unica regia individuale, Freedom Writers (2007), mai uscito in Italia ma apprezzato dai critici americani.
Ripete la scelta della spigolosa Hilary Swank, già protagonista del suo film precedente insieme all’ormai celebre Patrick Dempsey (il dottor Stranamore di Grey’s Anatomy), che smussa parzialmente la solennità della trama impedendo allo spettatore di soccombere fatalmente nella tristezza di un viso troppo dolce. Holly (H. Swank) e Jerry (G. Butler) sono una coppia complice e affiatata, sposati giovani e insieme da quasi dieci anni. I due mostrano la solidità dell’unione nella lunga sequenza iniziale (l’unica in cui Jerry è “vivo”) che narra un rapporto costellato sia da comuni preoccupazioni economiche/lavorative sia da ansie di maternità ma protetto da un amore sincero che continuerà a essere un collante anche dopo la prematura scomparsa di Jerry.
Venti intensi minuti di dialogo e coccole (con tanto di goffo striptease del magnifico irlandese Butler) e lo spettatore, già proiettato e “affezionato” alle loro vite, si trova davanti all’urna, disegnata dalla stessa Holly, contenente le ceneri dello sfortunato Jerry. Risparmiato il calvario del tumore al cervello, lo spettatore è lanciato nel mondo quasi sospeso che il dolce Jerry aveva preparato per scortare la sua Holly nell’inevitabile percorso di dolore dopo la sua tragica scomparsa. Per un anno la vedovina viene guidata dalle parole delle lettere post-mortem del marito che proteggendola, consigliandola e anche ascoltandola - quasi anticipandola - la aiutano ad attraversare il fiume del lutto conducendola, salva, alla sponda di una nuova esistenza.
Coinvolgendo le amiche svitate di lei (Lisa Kudrow e Gina Gershon) e la mamma esitante (una centratissima Kathy Bates) le lettere di Jerry “preparano” serate karaoke, torte di compleanno e, addirittura, un lungo viaggio in Irlanda alla ricerca di romantici flashback del loro innamoramento ma anche di orizzonti da cui ripartire. Una scelta che poteva diventare quasi egoista quella di Jerry se non fosse giunta a un ultimo p.s. (un “I love you” che inserisce al termine di ogni missiva): “tu sei stata la mia vita e io solo un capitolo della tua”. Un messaggio di riconoscenza e di speranza, ideato come motore per spronare Holly ad andare avanti, anche come donna, con nel cuore l’appoggio e l’amore incondizionato di chi se n’è andato troppo presto.
Una rinascita che passa anche attraverso l’aiuto dello stralunato Jeffrey Dean Morgan (William), il Denny del fortunato Grey’s Anatomy. A mitigare la tristezza ci sono le potenti immagini dei campi di lavanda immersi nell’intenso verde irlandese, i sorrisi disarmanti del romanticissimo Gerard Butler (lontano dai panni dei sanguinario re Leonida di 300) ma anche il dubbio di sottofondo che l’aggrapparsi a ricordi felici banalizzi in qualche modo i dolori reali della perdita e culli un’illusione che non rigenera vita ma può causare la morte dei sensi.
La vicenda, in fondo, è quella proposta in svariate salse da Hollywood (Ghost, The Notebook) ma è di casa anche da noi. Penso, ad esempio, a Per Sempre (2003) in cui Francesca Neri, prima di approdare a una fine drammatica ma liberatoria, viene sorretta e aiutata dalla “presenza” del defunto compagno, Giancarlo Giannini, che aveva lasciato precipitosamente prima che morisse. L’entourage di amici dell’inconsolabile Holly non convince nel ruolo di intervallo comico e non è neanche paragonabile allo humor vincente che Whoopi Goldberg ha regalato, quasi vent’anni fa, in Ghost nei panni della pittoresca veggente Oda; interpretazione che le valse un Oscar.
È Holly stessa a regalare il leitmotiv più divertente - e dissacrante - sfoggiando, nelle sue serate, l’urna del marito come fosse una pochette. P.s. I love you, che nelle sue parti più buffe è rallentato da qualche traduzione, non risparmia né lacrime né sorrisi a denti stretti. Rassicura, sui titoli di coda, il calore della splendida voce di James Blunt che nella sua Same Mistake sembra dar la parola a Jerry, ricordando che: “there is no place I cannot go”.
(Recensione di Valentina Malcotti©)